Questo diario documenta la missione che dal 18 al 24 marzo 2012 ha visto impegnati Gianluca De Palma, (Comitato Italiano per l’UNICEF - autore di questo reportage), Luciano Scalettari, giornalista di "Famiglia Cristiana" e Paolo Siccardi, fotografo. L’itinerario ha toccato le città di Juba, Waue e Kaujoc.
La delegazione ha visitato progetti sul recupero e sulla reintegrazione sociale degli ex "bambini soldato", sul corretto utilizzo dell’acqua e sulla prevenzione e cura della malnutrizione.
Giorno 1 - Wau
Il Sud Sudan è uno stato recentissimo di nascita. Nato il 9 luglio 2011 dopo anni ed anni di guerre civili, davanti ai miei occhi si presenta così, come una grande terra rossa, arsa dal sole dove vivono centinaia di persone.
In Sud Sudan non ci sono strade asfaltate, né sensi di marcia o di corsa, c’è una sola ferrovia che da Wau porta al vicino Sudan, non ci sono infrastrutture.
Tutto è in costruzione, l’ondata di orgoglio patriottico si sente molto chiaramente dai cartelloni pubblicitari che annunciano un proprio prefisso telefonico, ai sorrisi delle persone che parlano dell’orgoglio della propria nazione, il Sud Sudan.
La capitale Juba è uno slum a cielo aperto, gli edifici sono in costruzione, come le strade. I bambini giocano tra rifiuti bruciati o spaccano pietre con le madri, per rivendersele ed avere così qualche soldo da parte, ma tutti sono sorridenti, tutti camminano con la calma di chi sa che può fare qualcosa, la differenza.
Arrivati a Wau, andiamo subito al Vocational Training School "Don Bosco", dove ci accoglie padre Sonil, il responsabile. Ci spiega le attività che grazie al supporto dell’UNICEF consentono ai bambini di passare qualche ora a giocare, imparare le lingue e o dei lavori. Qui i bambini possono effettivamente distrarsi per un attimo dalla cruda realtà che gira loro.
Una delle aule del centro di formazione vocazionale Don Bosco a Wau - ©UNICEF Italia/2012/Gianluca De Palma
È fondamentale il lavoro dell’UNICEF proprio perché è una speranza per la sopravvivenza di questi bambini, per il loro reintegro o integrazione in un contesto sociale in pieno cambiamento.
Abbiamo la possibilità di parlare con due ragazzi, Joseph e Paulo, 23 anni l’uno, 21 l’altro. Hanno le facce di due ragazzi appena maggiorenni, eppure quando Joseph inizia a parlare qualcosa cambia. Sento una parte del mio corpo comprimersi, proprio come se avessi appena ricevuto un pugno sullo stomaco.
Joseph ci racconta la sua esperienza, è un ex bambino soldato. «Avevo 13 anni quando ho chiesto di entrare nell’esercito [lo SPLA - Esercito di liberazione del Sud Sudan]. I militari sono arrivati al mio villaggio per chiedere ad ogni famiglia il maschio più grande della casa. Stava andando mio padre, ma io ho pensato ai miei fratelli e alle mie sorelle, tutti più piccoli di me. Così ho deciso di andare, altrimenti chi avrebbe pensato a loro?»
Paulo ha una storia simile. È entrato nell’esercito all’età di 12 anni «perché quando i militari sono venuti a chiedere un contributo ad ogni famiglia del mio villaggio, mio padre era lontano, era con il bestiame e sono dovuto andare io.»
Entrambi hanno passato quattro anni ad addestrarsi tra fucili e marce, respirando un’aria troppo pesante, vivendo un tempo scandito da qualcun altro, un tempo che per loro non era stato assicurato da nessuno, un tempo che non riavranno più.
Quando si ascoltano storie del genere, nessun manuale ti insegna come reagire, che reazione avere. Ciò che pensi è che devi avere rispetto per tutto ciò che questi ragazzi hanno subito e tutto ciò che non hanno avuto.
Paulo e Joseph, i due ragazzi ex combattenti di cui si parla in questa pagina - ©UNICEF Italia/2012/Gianluca De Palma
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