‘’Esilio.
Per via del dolore indossava campanelli colorati,
una maschera di gioia.
Annodava le sue storie alla punta della lingua sì
che non lo tradissero nel momento cruciale.
Camminava leggero con scarpe costellate di diamanti solo,
mentre la notte senza stelle in attesa si impossessa dei miei occhi.
Uccello che sorvoli l’orizzonte ricorda i proiettili sono ovunque
ricordati di me eterno viaggiatore.
Tutta la vita avrei voluto procedere,
ma non sono mai avanzato oltre i confini della mia tomba”
Esilio, della poetessa siriana Aisha Arnaout
Il ciclo di seminari, organizzato dal Comitato Provinciale per l’Unicef, in convenzione con l’Università Magna Graecia di Catanzaro, ha avuto per oggetto: “L’emergenza umanitaria dei soggetti deboli: pratiche e politiche a favore dei minori vittime di violenza”. Il corso si è articolato in 10 incontri, che si sono svolti nell’arco di un periodo compreso tra il 15 Marzo e il 15 Maggio 2019 ed ha avuto l’obiettivo di portare noi studenti ad una maggiore cognizione delle dinamiche che sottostanno ad alcuni fenomeni, come il fenomeno migratorio o quello della violenza sui minori; fenomeni dei quali si sente discutere frequentemente in tempi recenti, ma dei quali spesso si hanno notizie fuorvianti e nozioni lacunose. Il Comitato Provinciale per l’Unicef, parte integrante dell’Unicef a livello nazionale, organizzazione non governativa che si propone la missione di tutelare e promuovere i diritti di bambine, bambini e adolescenti in tutto il mondo, si è avvalsa del contributo di docenti universitari e professionisti nel settore legale e sanitario (psicologi, psicoterapeuti) per condurre gli studenti universitari in un percorso di formazione su tematiche umanitarie e sociali al fine di favorire l’acquisizione da parte degli studenti di strumenti validi per un’osservazione maggiormente critica della realtà, accompagnandoli in un breve viaggio verso una visione più consapevole. Il IX incontro del corso, svoltosi il giorno 7 Maggio e dal titolo “La Siria tra passato e presente”, ha avuto come relatori, in veste di scrittori: Eliana Iorfida, archeologa che ha preso parte a diverse missioni in Siria, Israele ed Egitto ed autrice del libro “Antar”; Tania Paolino, professoressa di filosofia, ed Enzo Infantino, impegnato da molti anni come volontario in missioni umanitarie all’estero, autori del libro “Kajin e la tenda sotto la luna”.
Dopo una breve introduzione sull’argomento, si è affrontato il tema del passato della Siria, attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta ed amata.
Eliana Iorfida ha raccontato la sua esperienza in Siria, un paese che ha potuto vivere intensamente durante gli scavi ai quali ha partecipato come archeologa, condividendo i ricordi e le immagini di una Siria ancora straripante di vita e di bellezza, prima che la guerra sopraggiungesse, sconvolgendo e distruggendo ogni cosa. La Siria, considerata la culla della civiltà, in passato si configurava, all’interno del panorama mediorientale, come uno Stato sviluppato e moderno.
Pensando alla Siria oggi, al volto rigato dalle lacrime e dal sangue che mostra al mondo, la tendenza è quella di dimenticare o di ignorare la bellezza che quello stesso volto possedeva prima che un conflitto quasi decennale interessasse i suoi territori. Prima del conflitto, in ogni angolo del paese, era possibile ammirare resti di una cultura millenaria, resti di una serie di dominazioni (fenici, civiltà mesopotamiche, romani, arabi, mongoli e ottomani) che le consentirono di sviluppare una fiorente civiltà. Oggi la maggior parte della ricchezza artistica rappresentata dai tesori archeologici presenti in Siria sono andati perduti e questo ha rappresentato una gravissima perdita, in termini di patrimonio artistico, della quale ha risentito l’intera umanità.
Eliana Iorfida ha successivamente letto alcuni emozionanti stralci della sua ultima pubblicazione, “Antar”, ispirata alla sua permanenza in Siria e il cui titolo sarebbe un omaggio ad un romanzo arabo di cavalleria che aveva come protagonista un guerriero di epoca preislamica sempre pronto a battersi per affermare la propria identità e per difendere la sua gente. Fu un’opera che ebbe grande notorietà in Siria, notorietà giunta fino alle nuove generazioni, quasi un equivalente dell’“Orlando furioso” di Ariosto.
Il libro scritto dalla Iorfida è un romanzo che ha come protagonista Antar, un giovane italo-siriano, il quale convive con un’identità frammentata, come la sua terra, poiché egli non sente di essere occidentale, ma neanche orientale.
L’unico rapporto che Antar ha con la Siria è rappresentato dalle vacanze estive che da ragazzino trascorre a Damasco in compagnia dei suoi familiari, fin quando è costretto a ritornare in Siria con suo padre in via definitiva. Sentendosi solo e senza una patria, cerca rifugio nei libri fino ad un momento di svolta rappresentato dall’incontro con un vecchio professore della capitale siriana che lo conforta e gli racconta la storia della sua terra, permettendogli così di osservarla con occhi nuovi e con la giusta consapevolezza.
Tania Paolino, coautrice insieme ad Enzo Infantino del libro “Kajin e la tenda sotto la luna”, a proposito di consapevolezza, ha sottolineato con fermezza, nel corso del suo intervento, l’importanza della consapevolezza di ciò che accade nel mondo, soprattutto in Siria, dell’importanza di non essere distratti dalle futilità che costellano la nostra vita e che spesso ci portano a disumanizzarci. Con le sue parole e le foto che ha mostrato, in particolare la foto di una famiglia siriana che, tra la neve alta e mille difficoltà, cercava di giungere in un nuovo paese che potesse accoglierli, in cerca di salvezza, ha voluto esortarci a riappropriarci della nostra umanità, a non restare insensibili di fronte alla sofferenza di un popolo dilaniato dalla guerra che comunque prova a resistere.
Enzo Infantino ci ha parlato del presente siriano, attraverso le storie sofferte delle persone che ha conosciuto durante la sua esperienza nei campi profughi in Siria e in Grecia. Molte sono state le storie che lo hanno segnato e che ancora oggi lo accompagnano, come quella di un bambino siriano e della sua famiglia, un bambino con gli occhiali e gli occhi sorridenti a dispetto della sofferenza provata, storia che si è conclusa con un lieto fine, lieto fine che purtroppo non tutti quelli che condividono il loro stesso destino conoscono.
La testimonianza di quelle storie è registrata in un documentario girato da Infantino, che prende appunto il nome di “Kajin”, come il libro scritto insieme a Tania Paolino e che è anch’esso ispirato ai racconti dei rifugiati che Infantino ha conosciuto. E’ stato mostrato in aula un breve video estrapolato dal documentario e nella visione di questo filmato il silenzio in aula è stato eloquente, siamo stati tutti costretti a fermarci per guardare in faccia il dolore ma anche le speranze di persone che hanno perso tutto ma che vogliono tenersi stretta la propria vita, così come cercano di afferrare a piene mani quel futuro che sembra essere tanto sfuggente e che gli viene negato, come lo è anche il loro presente.
Non è possibile però comprendere davvero come si sia arrivati ad una crisi umanitaria di tale portata senza conoscere gli avvenimenti che hanno portato allo scoppio di questa guerra che appare essere interminabile.
La guerra in Siria è scoppiata il 15 Marzo 2001, sull’onda della Primavera araba, l’insieme di proteste e rivolte di piazza che tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 hanno mosso il Medio e Vicino Oriente e il Nord Africa, alla ricerca di una democratizzazione contro gli autoritarismi. Le prime insurrezioni contro il governo centrale siriano avevano lo scopo di spingere alle dimissioni il presidente Bashar al-Assad, in carica dal 2000 e successore del padre Hafiz al-Assad.
La brutale repressione delle proteste da parte del governo siriano ha innescato una guerra civile che ha portato al coinvolgimento di alcuni Paesi confinanti e della comunità internazionale. Di fatto, la Turchia sostiene il fronte dei ribelli, così come Arabia Saudita e Qatar. Tra i Paesi occidentali, Stati Uniti e Francia sono anch’essi dalla parte dei ribelli. Cina e soprattutto Russia sostengono il regime di Assad.
Nel 2013 all’interno del fronte dei ribelli, fino ad allora guidato dall’Esercito Siriano Libero, formato da ufficiali disertori, è aumentata l’influenza delle formazioni islamiste, che hanno cominciato a operare in maniera sempre più autonoma. Si è andato organizzando un nuovo gruppo composto da miliziani non siriani: è così che nasce l’Isis, il sedicente Stato Islamico che, dalla Siria, innesca una jihad globale.
I militanti dell’Isis hanno promosso vere e proprie pulizie etniche di stampo religioso all’interno della stessa Siria.
Sono vari gli Stati che hanno interessi nel teatro di guerra siriano: in primis la Russia, che esporterebbe il 6% delle sue armi a Damasco, sarebbe creditrice degli Assad, avrebbe siglato contratti per lo sfruttamento del gas trovato nel Paese e non vorrebbe rinunciare a un avamposto nel Mediterraneo – la sua base militare di Tartus.
Non mancano interessi francesi, pronti all’interventismo per rispolverare il proprio ruolo di potenza e accaparrarsi il mercato siriano delle infrastrutture e degli idrocarburi.
Per quanto riguarda la vendita d’armi, sicuramente l'Italia è stata un buon fornitore d'armi per Damasco prima del conflitto. Dopo il mancato rinnovo dell’embargo a maggio, l’Unione Europea non ha vietato la vendita di armi in Siria, se non al regime di Assad, per cui di fatto ogni Paese ha avuto il via libera. Nessuno, compreso il nostro, ha ufficializzato la vendita di armi ai ribelli, sebbene ufficiosamente la Francia aiuti la resistenza in tal senso.
Oggi il conflitto siriano ancora continua e non si sa se e quando si giungerà alla sua fine, considerando anche gli interessi che ci sono in gioco, nonostante il popolo siriano sia ormai allo stremo.
Il numero delle vittime innocenti di questo mostro chiamato guerra ha raggiunto dimensioni spropositate, così come quello dei profughi siriani, talmente tanti da rendere quasi impossibile una loro stima precisa, le cifre approssimative che giungono a noi sono spaventose, spaventose al punto che non si vorrebbe credere alla loro veridicità.
Milioni di profughi hanno trovato e trovano temporaneamente salvezza in campi costituiti da tendopoli, all’interno dei quali vivono in condizioni precarie, al punto che anche il freddo intenso può portarli alla morte. Provano, come facciamo tutti noi, a costruirsi una loro piccola quotidianità in quei campi, a costruirsi delle abitudini, perché il desiderio di poter vivere una vita il più possibile normale non si spegne, nonostante tutto, nonostante le difficoltà nel riuscirci siano oggettive.
Vivere in tali condizioni non è neanche più vivere.
Molti di loro infatti non hanno nessuna esitazione nell’ affermare che il vivere da profughi sia peggiore della morte, ci si sente fantasmi, appartenenti ad un limbo che appare come un’eterna condanna. E a risentirne sono in particolar modo i bambini, sono i loro i soggetti più colpiti. Alcuni di loro non hanno mai conosciuto un’esistenza normale e probabilmente non la conosceranno mai, oppure l’hanno vissuta per un periodo così breve da averla dimenticata.
Numerosi sono anche i siriani che tentano la fuga attraverso il Mediterraneo, con la speranza di approdare in terre straniere nelle quali trovare riparo e protezione. Tutti noi però siamo a conoscenza delle condizioni nelle quali compiono questo viaggio, stipati in imbarcazioni fatiscenti o su gommoni sicuramente inadatti ad affrontare una simile traversata, senza acqua e cibo per tempi lunghissimi, in condizioni che definire estreme e disumane sarebbe eufemistico. Purtroppo, nella maggioranza dei casi, questi viaggi della speranza hanno un epilogo tragico: il mare finisce per inghiottire tutte quelle vite, una ad una. Nel mare annegano tutte le speranze, annega un passato sofferto e la promessa negata di giorni futuri più sereni.
Simbolo della tragedia vissuta dai migranti è diventato Aylan Kurdi, un bambino siriano di tre anni, dopo che la foto che immortalava il suo piccolo corpo senza vita riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, è diventata tristemente nota a livello mondiale. Così come è diventato simbolo della tragedia siriana la foto della piccola Houda, scattata nel campo profughi di Atma, in Turchia, che la ritrae mentre alza le braccia in segno di resa di fronte all’obiettivo della macchina fotografica puntata su di lei, perché scambiata per un’arma. C’è da dire che l’indignazione che queste due foto simbolo hanno suscitato è stata immediata e condivisa, di portata globale. Queste foto hanno avuto il merito di risvegliare le coscienze, nonostante i problemi etici che possono aver accompagnato la loro pubblicazione come nel caso della foto del corpo senza vita di Aylan. Forte indignazione che ha scosso le persone temporaneamente, infatti una così elevata attenzione nei confronti della crisi umanitaria oggi in atto, è durata quasi quanto il tempo di quegli scatti, in seguito sembra essere sopraggiunto l’oblio, almeno nella maggior parte dei casi.
Penso, a questo punto, che il modo più opportuno di concludere questa breve relazione sia riportare alcune mie sensazioni e considerazioni, a partire dagli interventi dei relatori presenti.
Dai racconti di Eliana Iorfida e di Enzo Infantino è trasparso l’amore per una terra come la Siria, culla della civiltà orientale, come è stato accennato, ed oggi paese lacerato da una guerra quasi decennale ma la cui bellezza, nonostante le brutture della guerra, resta sepolta sotto le macerie nella speranza un giorno di poter rifiorire. Così come emerge l’amore per il popolo siriano, un popolo stremato dai conflitti e dal dolore, ma che in qualche modo si concede ancora il “privilegio” di sognare una vita migliore. Ho utilizzato il termine “privilegio” perché un’azione che sembra quasi connaturata all’essere umano, ovvero sognare, sembra essere in certi contesti appunto un privilegio, se non addirittura un atto di resistenza e di ribellione. In molti casi, come testimoniano i racconti degli stessi rifugiati registrati e mostrati in aula da Infantino, si tratta di sogni semplici, quasi disarmanti per il loro candore, come il sogno di voler vedere riaffiorare il sorriso sul volto della propria moglie. Se non fosse per questi sogni, forti ed ostinati, probabilmente molti di loro oggi si sarebbero già arresi. Sognare li aiuta a restare in piedi, a superare le frontiere con le mille difficoltà che ciò comporta. Così come anche il sogno di poter ritornare in patria un giorno, per riappropriarsi delle proprie radici spezzate, della propria vita semplice fatta dei sorrisi delle persone amate, delle lunghe giornate ti lavoro, delle passeggiate nei mercati cittadini, pur con la consapevolezza che niente potrebbe essere più come è stato in passato, prima della guerra.
Essendo appassionata di documentari e spinta dal desiderio di avere più informazioni su quello che stesse accadendo in Siria, un po' di tempo fa vidi il documentario “Siria” di Antonio Martino, un documentario crudo, che testimoniava le prime fasi del conflitto siriano, i primi avvenimenti che portarono alla svolta drammatica che oggi tutti noi conosciamo. È stato difficile prendere visione di quelle immagini, la tentazione di chiudere gli occhi di fronte a scene di tortura era forte, eppure, di fronte a tali riprese, ho fatto lo sforzo di spalancare i miei occhi, perché bisogna avere il coraggio di guardare per poter prendere consapevolezza. Considerando il fatto che tanti siriani hanno rischiato la vita per poter lasciare testimonianza di ciò che il loro paese ha attraversato, dal momento che ogni tentativo di filmare quello che avveniva veniva represso con la violenza dal regime di Bashar al-Assad, chiudere gli occhi sarebbe un modo di non onorare il loro sforzo, un modo per far sì che il sacrificio che hanno compiuto per denunciare le violenze e le violazioni subite sia stato vano.
L’ osservazione di questo documentario mi aveva fornito una prospettiva molto chiara, ma parziale, che ho potuto poi successivamente arricchire attraverso la partecipazione al seminario, il quale mi ha restituito, in particolar modo, una visione più ampia dell’impatto che la guerra ha ed ha avuto nel determinare un elevato grado di fragilità in coloro i quali la vivono e l’hanno vissuta.
Per concludere, mi piacerebbe riprendere il titolo del libro di Enzo Infantino, “Kajin”, che vuol dire “dov’è la vita?” e dare una mia personale risposta o, quanto meno, provarci. La vita è dovunque vi siano persone che resistono, che lottano, che mettono a rischio tutto ciò che sono per concedersi la possibilità di sperare in un futuro migliore, per sé e per coloro che amano. E, soprattutto, la vita è dovunque queste persone non vengono lasciate sole nella loro lotta, perché fin quando ci sarà anche una sola persona la cui incolumità verrà minacciata, i cui diritti saranno brutalmente calpestati e la cui dignità umana non verrà rispettata, allora saremo tutti coinvolti.
Anche per questo è assurdo pensare che la tendenza predominante sia quella di ostacolare il percorso travagliato dei profughi siriani verso la salvezza, come accade anche con molte altre persone che fuggono affannosamente dai loro luoghi di appartenenza alla ricerca di una vita migliore. È assurdo pensare come si tenda ad accantonare l’aspetto umano, mettendo da parte quella profonda empatia che dovrebbe orientarci, arrendendosi invece all’odio più bieco verso il prossimo o al menefreghismo. Nonostante questo non smetto di avere fiducia in un cambiamento in tal senso, soprattutto perché penso che conoscere, parlare di determinate tematiche possa rappresentare la chiave di svolta e, appunto, occasioni come questo seminario ci ricordano che, una volta che si arriva ad avere coscienza di certi avvenimenti, una volta che guardi in faccia il dolore e la disperazione altrui, allora a quel punto non puoi più fare finta di niente.