Cronache di frontiera. Lampedusa: vite in hotspot
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A Lampedusa per alcune persone il tempo si ferma. Per chi ha vissuto i ritmi frenetici e le difficoltà di un viaggio, attraversato diversi Paesi, il deserto e poi il mare, quella sosta forzata costringe a ripercorrere e fare i conti con il passato recente. Spesso al centro di queste storie ci sono bambine, bambini, ragazze e ragazzi cresciuti troppo in fretta e a cui, ancora una volta, viene negata la possibilità di vivere la propria età.
Lampedusa, Contrada Imbriacola. Lontano dal movimento del centro, tra due colline, l’hotspot si sviluppa in una gola stretta dove, superati gli uffici delle autorità e delle organizzazioni umanitarie, si alternano prefabbricati destinati all’alloggio temporaneo di minori, donne, uomini e famiglie, anche se spesso questa suddivisione non viene rispettata, creando situazioni di promiscuità e incrementando i rischi di sicurezza per donne e minori. Più trascorre il tempo in hotspot, più i livelli di stress e stanchezza accumulati, le fatiche, l’incertezza rispetto al percorso futuro rischiano di avere un impatto negativo sul benessere psicofisico delle persone.
Giorno 7
M. non mangia. Racconta che sta male ogni volta e che, se dovesse sentirsi poco bene, non riuscirebbe a utilizzare i bagni. Sono sporchi e a volte manca l’acqua. Mancano anche i detergenti così come indumenti puliti – compresi i cambi intimi. Quasi tutte le donne accusano fastidi e infezioni. Qualche donna incinta, accusa dolori al basso ventre ma non l’ha ancora segnalato al medico.
Giorno 15
Un armadietto viene spostato per separare l’ingresso della stanza delle donne dalle altre aree. “Così possiamo cambiarci senza che nessuno entri in stanza” dicono alcune di loro. In tante non dormono. Lamentano la promiscuità degli spazi e la confusione esterna, ma non solo. “Sono stanca, abbiamo attraversato il mare. Ho tanto rumore in testa” ci dice una giovane. Un’altra ragazza stringe un orsacchiotto di peluche, gli sussurra di riposare, che starà bene.
A tenere salde le persone restano a volte le speranze, il bagaglio che ognuno porta dal proprio Paese d’origine. Per alcuni è un pallone e il sogno di giocare a calcio, per altri è invece una molla per affrontare la sofferenza. Una delle donne che incontriamo è fuggita dal suo Paese perché sopravvissuta a violenza di genere. È arrivata in Italia per sentirsi più protetta, studiare legge e lavorare a favore di tante altre donne che hanno subito o stanno subendo le sue stesse difficoltà.
Giorno 40
I. è un bambino di soli 13 anni, partito insieme ai suoi fratelli con un sogno, arrivare in Italia e studiare. Un sorriso gentile, cortese, che ogni giorno però si spegne quando ricorda agli operatori di cui si fida da quanto tempo è lì dentro. 1 mese e 10 giorni. Tante persone sono state trasferite, tante altre sono entrate in struttura, lui ancora è lì. Spieghiamo che nel suo caso è più complesso trovare una struttura che possa accogliere il nucleo. Ma non lo accetta, tra un sorriso gentile e un saluto, e uno sguardo imbronciato per una ragione che non può comprendere. Qualcun altro chiede “perché non posso uscire fuori neanche se mi accompagnano?”.
Il tempo ha una cadenza diversa per altre persone dentro la struttura
L’UNICEF è presente nell’hotspot di Lampedusa insieme al partner Save the Children. Il team sul posto, costituito da un’operatrice specializzata in protezione dell’infanzia, due operatrici sociali e due mediatori culturali, in coordinamento con UNHCR e con le altre organizzazioni presenti, lavora per la corretta identificazione dei e delle minorenni, la tutela del diritto all’unità familiare e la gestione dei casi di particolare vulnerabilità, segnalando alle autorità e rinviando ai servizi specializzati, inclusi quelli di risposta alla violenza di genere. Tra le altre attività, il team porta avanti anche informative e attività ricreative di decompressione e gestione dello stress. Ma soprattutto, il primo supporto psicologico: “A volta basta un saluto, chiedere “come stai” per far sentire ragazze, bambine e bambini “visti”, non più invisibili” ci dice Miriam, operatrice del team UNICEF-Save the Children.
Le pareti dell’ufficio si riempiono di disegni realizzati durante le attività. Tra quelli più frequenti, scene di naufragi. Sui fogli colorati, tanti piccoli corpi stipati dentro le barche, il mare, i pesci, persone che cadono, immagini che non dovrebbero appartenere alle fantasie di bambine/i e adolescenti.
Il sovraffolamento, un rischio per la protezione dei più vulnerabili
Nei periodi in cui gli sbarchi diventano più frequenti, basta poco per riempire l’hotspot. Quando i numeri superano la capienza massima della struttura, 380 posti, il sovraffollamento pone importanti rischi di protezione.
Bambine, bambini e adolescenti necessitano e hanno diritto ad un ambiente su misura per loro, e ad una risposta integrata e tempestiva ai loro bisogni.
Resta fondamentale ridurre i tempi di permanenza in hotspot e di trasferimento in strutture idonee, arginando il rischio di allontanamento dal sistema formale di accoglienza e accelerando la presa in carico appropriata dei bisogni individuali. In linea con la normativa vigente, devono inoltre essere favorite soluzioni di accoglienza alternative alle grandi strutture – quali l’affido familiare, o individuate in strutture piccole e radicate sul territorio che favoriscano i percorsi di reinserimento scolastico e di inclusione sociale.
L’UNICEF è attivo a Lampedusa nell’ambito di “Protect", il progetto finalizzato a rafforzare gli interventi di protezione e inclusione a favore di bambine/i, adolescenti, giovani e donne rifugiati/e e migranti in Italia. Il progetto è finanziato dalla Commissione europea attraverso il Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI).