Mozambico, le donne che combattono l'AIDS
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L'autrice di questa storia dal campo, Manuela Cau, partecipa a un programma di volontariato in Mozambico (settembre 2010-marzo 2011), come giovane volontaria dell'UNICEF Italia. Collabora con l'UNICEF Mozambico nel settore Salute e Nutrizione.
«Per avere un riconoscimento servono molti sacrifici, ma noi siamo riuscite ad entrare in tutte le stanze, entrare in tutti gli uffici, c’è mancato solo che entrassimo nell’ufficio del Ministro per consegnare i nostri documenti. Ma ci siamo riuscite, anche così, da sole».
Afua Assane, 26 anni, presidente dell’associazione Kuplumussana, riassume orgogliosa con queste parole il lungo e difficile percorso intrapreso da lei e dalle sue compagne per la costituzione della loro associazione di volontariato.
Il gruppo iniziò a formarsi nel 2005 nell’Ospedale Centrale di Beira (Mozambico) dove portavano i propri figli a fare le visite e prendere i farmaci antiretrovirali per la cura dell’HIV/AIDS. Lì parteciparono a laboratori sull’importanza di seguire i trattamenti contro l’HIV e iniziarono attività di “ricerca attiva” dei bambini che non si presentavano a fare la terapia,
La maggior parte delle donne dell’associazione ha scoperto la propria sieropositività in seguito a malattie prolungate o in occasione del consulto pre-natale che prevede la proposta di somministrazione del test per l’HIV a tutte le donne incinte che si presentano per le visite di controllo durante la gravidanza.
Prevenire la trasmissione "verticale" del virus
«Ho fatto il test nel 2003 ma non è stato volontariamente che ho chiesto di avere il risultato», dice Isabel Domingos Alexo, 27 anni, divorziata. «Io ero incinta, quindi sono andata a fare la visita pre-parto e lì consigliavano a tutte le madri di fare prima di tutto il test. E io l’ho fatto».
Secondo il piano di prevenzione della trasmissione madre-figlio del virus HIV stabilito nel Programma per la salute materno-infantile del Ministero della Salute mozambicano, con la supervisione tecnica e finanziaria dell’UNICEF e di altre organizzazioni partner, una volta riscontrata la sieropositività della futura mamma è previsto il suo inserimento in un programma di "accompagnamento".
La donna riceve profilassi, sostegno psicologico e indicazioni sui medicinali da assumere durante e dopo il parto, e da somministrare al neonato qualora anche questi risultasse positivo al test per l'HIV.
Attraverso tali interventi le persone iniziano a comprendere quanto le cure siano efficaci e quindi importanti per la propria salute e le loro vite, come testimonia Arina Castaneja, 37 anni. «Ho quattro figli. Solo uno sta prendendo le medicine. La terapia sta andando bene».
«Io non avevo speranze per quel bambino, è stato un miracolo! Oggi, quando sento qualcuno parlare male di questo trattamento, mi sembra assurdo. Se non fosse stato per questo trattamento io non avrei quel bambino, dal primo giorno del parto e poi in neonatologia, fino al recupero del bambino. È molto questo, è molto per me».
Mariti contro
Non tutte le donne riescono però a seguire il programma in modo costante, soprattutto a causa della mancanza di appoggio all’interno della famiglia.
«Mio marito non ci credeva», racconta Natalia Estevão Chimoio, 26 anni, anch'essa divorziata. «Mi diceva: 'io non ti accompagno più, vai da sola', e siccome io avevo paura di perdermi, rimanevo a casa e così non ho mai seguito il trattamento. Era il 2002. Quando sono tornata qui a Beira era ormai il 2004. Sono venuta perché io e mio marito già non andavamo più d’accordo.»
La mancanza di sostegno in famiglia è spesso aggravata dalla paura di subire atti discriminatori. «Stavo male. Le vicine del quartiere mi discriminavano a causa del fatto che noi ricevevamo i viveri del Programma Alimentare Mondiale in quel periodo. Dicevano: 'Quelli che ricevono cibo dal PAM hanno l’AIDS' e io piangevo per questo,» ricorda tristemente Joana Manuel, 30 anni.
Questa paura, unita all’abbandono, porta molte donne a nascondere il proprio stato di salute e quindi a trascurare le cure.
L'orgoglio di non essere sole
Accettando l’appoggio del progetto dell'ONG Medici con l'Africa/CUAMM gestito da Maria Laura Mastrogiacomo e finanziato dall’UNICEF per sostenere gli sforzi delle autorità locali nella lotta all'AIDS e alla malnutrizione a Beira, il “gruppo delle madri” ha iniziato a riunirsi regolarmente ogni venerdi.
Durante le riunioni si confrontano e si sostengono l'un l'altra per affrontare le difficoltà legate alle cure, alle relazioni con i parenti, i partner e la società. Analizzano anche i risultati ottenuti dalle attività sviluppate e pianificano le attività future.
In pochi anni, le componenti del gruppo hanno recuperato la salute e l’autostima persa. La consapevolezza delle proprie capacità e della propria forza è aumentata. Quella voce che le incoraggiava fra le mura dell’ospedale ha iniziato a diffondersi in altri quartieri della città.
Nel 2010 hanno avviato i laboratori di sensibilizzazione e “ricerca attiva” di bambini anche in altri due centri sanitari della città, riuscendo ad arrivare fino alle comunità più periferiche e carenti, affinché altre donne e altre famiglie comprendessero l'importanza di fare il test e seguire le cure per il bene loro e dei propri figli.
Così testimoniano le forti e coraggiose parole di Rosa Meque, 26 anni: «Sono molto orgogliosa di essere nell’associazione, perché l’associazione è la mia vita, la mia famiglia, è tutto.»
«Io oggi sto riprendendo a fare tutto quello che non facevo. E quelle persone che ridevano di me, oggi mi ammirano. Voglio portare avanti la mia vita, mostrare che ce la posso fare, che sieropositività non significa morte, è vita. Io sono viva e faccio tutto quello che mi piace fare.»