«Sono semplicemente partito con i vestiti che avevo indosso» la storia di Abubacar.
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«Sono semplicemente partito con i vestiti che avevo indosso. Avevo sentito dire che nei posti di blocco, e soprattutto al confine libico, ti prendevano tutto quello che avevi. Se avessi potuto portare qualcosa, avrei portato i miei scarpini da calcio e la mia felpa.»
Chi parla è Abubacar, un ragazzo 16enne della Repubblica Islamica del Gambia che spera di diventare un calciatore professionista. Da quando è arrivato in Italia, è ospite del centro governativo per i bambini non accompagnati di Trabia in Sicilia. Gli ci sono voluti otto mesi per arrivarci «Ho trascorso tanto tempo in viaggio», dice, «perché non avevo soldi. Partivo, poi mi fermavo, ripartivo e mi rifermavo».
Dopo la morte del padre nel 2009, la sua famiglia ha fatto fatica a sbarcare il lunario. «La nostra famiglia ha sofferto dopo la morte di mio padre… da quando è morto lui non ho più potuto frequentare la scuola, e spesso non potevamo neanche permetterci di comprare del cibo».
Alla fine, Abubacar ha deciso di tentare la fortuna in Europa ed è partito senza dire nulla a sua madre. Il viaggio per via di terra lo ha condotto ad attraversare Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, fino a raggiungere la Libia.
«Ho viaggiato senza passaporto, con soltanto una carta di vaccinazione. Ho attraversato i confini, ma non mi hanno mai chiesto un documento d’identità, soltanto soldi. I prezzi erano diversi: in Burkina il passaggio costava 15.000 franchi africani (pari a 25 dollari USA), in Mali 20.000 franchi africani (30 dollari).
In Libia era molto difficile sopravvivere, uccidevano la gente e io ho sofferto per quattro mesi. Ho lavorato in Libia finché non sono riuscito a racimolare 550 dinari (395 dollari USA), dopodiché ho preso una barca. Su tutte le barche era molto pericoloso, eravamo stipati molto stretti tutti insieme. Quando mi sono imbarcato la prima volta mi hanno catturato e mandato in prigione, però sono scappato e ho preso una seconda barca, e stavolta siamo stati salvati dai militari norvegesi. Ci hanno dato cibo, acqua e abiti nuovi...
Quando ho telefonato a mia madre, dopo cinque mesi, le ho detto: ‘Sono in Italia’, e lei non mi credeva, piangeva e gridava. Tante persone arrivano in Libia per poi sparire, e le famiglie non ricevono più notizie da loro, perciò mia madre pensava che fossi morto. Ho cominciato a piangere quando ho sentito la sua voce., ero così felice e triste al tempo stesso”, dice, e aggiunge: “Sono venuto in Europa e ho lasciato l’Africa».