Una nuova generazione di chef cresce in Italia
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2 aprile 2019 - Di norma organizzo le mie vacanze intorno al cibo. Odio programmare, mi piace piuttosto andare in cerca di specialità locali, trovare qualche piccolo ristorante, fare una deviazione per un buon pasto.
Non avrei mai pensato che durante la mia missione in Italia il cibo avrebbe assunto una posizione così centrale.
Certamente immaginavo che avrei mangiato un sacco di pastasciutta, ma di corsa, al termine di lunghe e stancanti giornate di lavoro. Ma non pensavo che avrei passato così tante ore del mio tempo di lavoro parlando di cibo, durante le mie interviste.
Molti dei giovani che ho incontrato in Italia non vedono l'ora di entrare in cucina. La cosa curiosa è che nessuno di loro è italiano...
Fatou
Cominciamo da Fatou, che incontro a Palermo,.
Per lei, che ha 17 anni, cucinare è un modo per tornare alla propria infanzia, a quando sua mamma le insegnava a preparare il pranzo per tutta la famiglia.
Fatou è una rifugiata del Gambia, e prima di giungere in Italia ha passato momenti molto difficili in un centro di detenzione in Libia. Cucinare per lei è qualcosa di puro e catartico.
Fatou è nata per comandare. Se non avverti immediatamente questa sensazione non importa - te ne accorgi dalla sua collana "F QUEEN" [F sta per Fatou, "queen" significa regina].
Dopo la scuola, Fatou inizia il suo turno di fronte a "Moltivolti", un popolare caffé e luogo di lavoro frequentato sia da locali che da migranti. Ma la sua aspirazione è stare in cucina a dirigere lo spettacolo.
Ci porta a fare il giro del locale, e arriviamo nel retro appena prima della pausa pranzo. Ispeziona con attenzione le portate. Ne assaggia una. «Buono, ma io saprei fare di meglio!» ammicca sorniona ai cuochi. Usciamo dalla cucina tra risate e battute amichevoli.
Omar
In seguito incontro Omar a Naro, cittadina nel cuore della SIcilia.
Naro, a un'ora d'auto a nord di Agrigento, ha visto la sua popolazione ridursi progressivamente nel corso degli ultimi decenni. Omar e altri giovani migranti vivono nei centri di accoglienza allestiti qui.
Cucinare aiuta Omar a rilassarsi, e lui gode di questa possibilità. Ma cucinare è anche un modo infallibile per far stare insieme le persone, cosa per lui non meno importante. Mangiare insieme crea relazioni, come in una famiglia. «Mi piace quando le persone stanno insieme» ci dice. «Il cibo unisce la gente.»
Quando una persona emigra in solitudine, è importante trovare un posto a cui appartenere. Omar è arrivato in Italia dal Senegal, dove a causa di problemi in famiglia era stato costretto ad abbandonare la scuola per andare a lavorare.
Qui in Italia è potuto tornare a studiare e ora ha in vista un apprendistato per giovani migranti aspiranti chef in un noto ristorante di Agrigento che celebra una cucina fusion in stile siculo-senegalese.
Partecipo a una sessione del progetto UNICEF-Junior Achievement (JA) Italia dedicato a giovani italiani, migranti e rifugiati.
Il relatore di oggi è proprio il proprietario di questo ristorante agrigentino. Parla alla classe di come spesso per "integrazione" si intenda una cultura che ne assorbe un'altra, anziché - come dev'essere - di uno scambio attivo tra culture differenti. Omar ascolta rapito, con grande concentrazione, ed è l'unico a porre una domanda spontanea.
Momo
Per ultimo incontro Momo a Vittuone, una città nell'hinterland milanese.
Momo è arrivato in Italia dall’Egitto quando aveva appena 12 anni. Non aveva alcuna base culinaria, ma ha dovuto imparare a cucinare quando era in un centro di accoglienza, a Palermo.
«La prima volta che feci da mangiare per i miei compagni al Centro andò tutto bene» ricorda. «La seconda volta, andò ancora meglio. Allora tutti mi dissero: ‘OK, da adesso sei tu il cuoco’.»
Oggi, dopo essere stato il primo minorenne migrante a essere collocato in una famiglia affidataria italiana tramite il progetto "Terreferme" di UNICEF e CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza), Momo è già il primo della classe nel suo corso di cucina a scuola, e nei fine settimana lavora in un ristorante.
Provo a impressionarlo con la mia pietanza egiziana preferita: il koshari (riso, lenticchie e pasta corta con una salsa di pomodoro ricca di spezie e aceto). Lui si schermisce: «È buono, ma non cucino queste cose. Io faccio solo cucina italiana.»
Insiste per cucinare qualcosa per me e mi chiede cosa preferirei. Risposta facile: pasta alla norma! Per chi non la conoscesse, è una specialità siciliana di pasta (penne) con melanzane fritte e salsa di pomodoro, ricoperta con scaglie di ricotta salata. In Sicilia l’ho mangiata praticamente tutti i giorni.
Momo sorride. Ha vissuto in Sicilia per anni, prima di essere trasferito qui nel nord, nella famiglia che lo ha accolto in affidamento. È lieto di tornare a cucinare qualcosa di meridionale. Ma lo fa alla sua maniera, con alcune aggiunte personali e inaspettate alla ricetta tradizionale: spicchi di mela per dare un tocco di croccantezza. Sono piacevolmente sorpresa di avere una variante al mio piatto preferito.
I genitori affidatari si intendono bene con Momo, dato che anche a loro piace cucinare, sebbene siano ben lieti che ci sia qualcuno in casa che prepara la cena ogni sera. «Ma abbiamo scuole di pensiero diverse» dice con tono serioso Stefano, il papà, con gli occhi che gli brillano. «Prendiamo il pesce, ad esempio. Per cucinarlo Momo gli toglie sempre le interiora, mentre io preferisco cuocerlo in forno per intero.»
Momo ha una smorfia di orrore, e tutti scoppiano in una risata.
I rischi del decreto sicurezza
Vi sfido a nominare un paese migliore dell’Italia in cui crescere, da un punto di vista culinario.
La ricchezza dei prodotti, la sottigliezza della semplicità, la vasta gamma dei piatti, l’insaziabile voglia di sedersi a tavola e gesticolare senza freni…è tutto, semplicemente, sublime.
Quando sei un giovane migrante e vivi da solo, comunque, la vita è tutt’altro che facile.
In Italia ci sono migliaia di minorenni migranti e rifugiati. Secondo le stime del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, a gennaio 2018 in Italia si contavano circa 15.000 minorenni stranieri non accompagnati (MSNA). L’85% di essi aveva tra i 16 e i 17 anni.
E questo è molto importante, perché con il Decreto sicurezza varato dal Governo nel dicembre scorso (L. 132/2018) è stato drasticamente ridotto l’accesso per migranti e rifugiati alle misure e ai servizi di protezione umanitaria.
Il 1° gennaio 2019, circa 7.500 di questi ragazzi sono diventati maggiorenni, ritrovandosi improvvisamente privi delle misure di inclusione sociale di cui godevano.
Nessuno sa davvero cosa accadrà. Meno di chiunque lo sanno questi adolescenti, che pur avendo questa prospettiva sempre presente nella loro mente, fanno una faccia coraggiosa e tornano al loro lavoro: cucinare.
Puoi sentire la loro passione, è ben presente. Sanno che questa è una professione solida, con la quale potranno trovare lavoro, ovunque li porti la vita.
Sono pronti per spiccare il volo. Hanno solo bisogno di una possibilità.
(testo di Codi Trigger, UNICEF)